Violenza di genere – Analisi sul fenomeno (Parte 1)

Il seguente articolo è una trascrizione, e allo stesso tempo la base, del video che si trova a questo indirizzo:

La violenza è un fenomeno considerabile, per certi versi, connaturato all’esistenza dell’umanità fin dagli albori della sua storia. Carmine Ventimiglia, un tempo professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma,

“era persuaso che vi fosse un’origine remota negli atti di violenza conclamata e ne cercava le origini nella norma sociale, negli usi, nei costumi, nella cultura che viviamo” [1].

Molti sono gli aspetti attraverso cui si può esercitare violenza. Tra questi, la sopraffazione e l’imposizione del dominio, mediante un atto di oppressione fisica e/o psicologica, di un genere sessuale sull’altro è una situazione fortemente legata a doppio filo alle vicende del consorzio umano, inteso se non proprio nel suo insieme, quantomeno nella sua grande maggioranza. Nella quasi totalità delle società conosciute, presenti e passate, questo predominio è esercitato dall’uomo; anche qualora la struttura societaria si esprima in una discendenza matrilineare, come constatato dall’antropologo Bronislaw Malinowski nei suoi studi sulle popolazioni delle Isole Trobriand in Nuova Guinea, il potere è comunque di solito nelle mani di uomini, ad esempio il fratello della madre.

Tipica rappresentazione grafica della violenza domestica.

In parole povere, la preminenza sociale ed economica maschile rispetto a quella femminile è una realtà storica ben consolidata, ivi compreso nel mondo occidentale. È stato negli ultimi decenni che, con il sorgere di movimenti femministi propugnatori dell’eguaglianza tra uomo e donna, si è visto a livello globale (naturalmente con “zone d’ombra” e luoghi in questo senso più arretrati) un progressivo e ancora in corso sviluppo dell’emancipazione femminile nei confronti dei maschi.

Come scrive Patrizia Romito,

“Il movimento delle donne ha prodotto consapevolezza, conoscenza e resistenza; ha svelato la rete di complicità, spesso istituzionali, che permetteva al singolo uomo violento di continuare ad agire, indisturbato e impunito; ha ideato una serie di misure per contrastare la violenza.” [2]

Naturalmente, e purtroppo, il semplice riconoscimento del problema e l’attivazione per iniziare a sbrogliarlo non è una risoluzione di sé e per sé. Le violenze dentro e fuori casa, a dispetto della maggior consapevolezza generale, non sono certo cessate. Per Paola Merchiori,

“È in questo contesto che va letto l’aumento dei livelli di violenza contro le donne, che dai Paesi emancipati del nord Europa, fino all’ultimo ‘barrio’ latinoamericano, conta cifre paurose, numeri che non possono solo essere imputati all’emersione di qualcosa che prima c’era ma non si vedeva”. [3]

Insomma, in un mondo che sempre più cerca di privilegiare il raggiungimento di una parità di trattamento giuridico e sociale nei confronti dei generi, capita che a volte esponenti di quello che fino a non molto tempo fa era universalmente riconosciuto come “il sesso dominante” non riescano a stare al passo con questa nuova concezione relazionale, accumulando sentimenti di tensione, frustrazione, rabbia persino. Il non essere completamente al centro del mondo della propria partner, il dover sostenere anche solo un confronto verbale con un altro essere senziente dotato di proprie opinioni e un personale modo di vedere le cose e gestire le situazioni, è come se facesse emergere dalle profondità dell’animo di taluni maschi un senso di malessere che non riescono ad appianare se non sopraffacendo la compagna tramite l’uso della violenza, in una maniera di cui solitamente nemmeno loro riescono a capacitarsi: “Mi sento nervoso, ferito, sottovalutato […] Non so dire il vero perché”, cerca di giustificarsi un marito; “Non so come spiegarmelo neanch’io”, dice un uomo con problemi di alcolismo riguardo alle violenze perpetrate sulla moglie; “Verbalmente era molto più brava di me. Io reagivo con le mani, fermandola, bloccandola, prendendola per il bavero”, si esprime un altro.

Iniziando ad esplorare più nel dettaglio il tema degli abusi, vedremo che una questione si lega a doppio filo con esso: quello della dipendenza psicologica. Da un punto di vista razionale potrà risultare strano, ma nelle coppie in cui uno dei due partner è violento viene solitamente a crearsi una condizione in cui la compagna (ma anche “il” compagno: in base alle conclusioni delle ricerche di studiosi come R. L. McNeely, professore di Social Welfare all’Università di Milwaukee, “La violenza domestica, come ogni violenza, è un problema umano, non meramente un problema di genere. Classificare la violenza di coppia come un problema unicamente femminile, piuttosto che riguardante l’umanità, è erroneo. Nelle relazioni domestiche, le donne sarebbero inclini tanto quanto gli uomini a commettere atti fisicamente violenti”) [4] assume una sudditanza nei confronti di quello che è a tutti gli effetti il suo oppressore, evitando di denunciare le violenze, negando addirittura che si siano verificate. Il motivo di ciò può avere origini pragmatiche: ad esempio, nei casi in cui è l’uomo a provvedere in toto al sostentamento economico della propria compagna, la quale, in special modo se ha figli, teme di vedersi privata del supporto materiale per continuare a vivere dignitosamente.

La dipendenza psicologica, la colpevolizzazione della vittima di abuso e la bassa autostima della stessa sono tutti fattori che favoriscono lo svilupparsi di un ambiente di relazione tossica e nociva.

Spesso, comunque, il fenomeno si identifica con la cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, uno stato di dipendenza psicologico/affettiva che si riscontra in vittime di violenze fisiche, verbali o psicologiche. Nonostante i maltrattamenti subìti, l’oppresso si sottomette all’oppressore, non reagisce, spesso non fa menzione degli accadimenti a nessun altro, persino si colpevolizza giustificando le azioni dell’aguzzino. Anche nel caso in cui riesca ad accettare di tenersi a distanza dal partner violento, capita assai di frequente che l’aggressore venga fatto tornare tra le mura domestiche dopo poco tempo (nel caso in cui sia questo ad essere stato cacciato) o che sia lei stessa a ritornare sui suoi passi (qualora sia stata lei ad andarsene), concedendoglisi nuovamente per un nuovo ciclo di abusi.

L’avvocatessa Simonetta Agnello Hornby racconta di un caso presentante simili aspetti con cui ebbe a che fare a Londra, nel 1977, e che costituì la prima occasione in cui si occupò di violenza domestica.

“Mrs P. aveva cinquantotto anni e lavorava come commessa in un negozio di stoffe. Sette anni prima aveva trovato la felicità. […] José, un giovane colombiano venuto in vacanza a Londra, si era innamorato di lei e lei di lui. Si erano sposati.” [5]

Secondo la testimonianza, i primi tempi erano stati felici. Ma ad un certo punto il marito, maestro di salsa, si invaghì di un’allieva e iniziò a maltrattare la moglie.

“Tornava dalle lezioni pieno di rabbia e di desiderio per quella donna che non gli si concedeva, e non trovava di meglio che sfogarsi con la moglie. Quando lei, rosa dalla gelosia, gli diceva di smetterla, lui la pestava in modo orribile e poi facevano l’amore”. [6]

Questa macabra usanza era diventata praticamente una routine nelle loro vite da ormai un anno, un “elisir d’amore”, come lo definì Mrs P. Le condizioni di salute della donna, già precarie per il fatto di essere sorda a un orecchio e l’aver subito un’operazione all’altro, peggiorarono al punto che decise di recarsi in ospedale, dove le fu consigliato di rivolgersi a un avvocato.

Con la sua accettazione del fatto che avesse bisogno di aiuto sembrava aver superato la fase di sudditanza psicologica, ed essere pronta ad iniziare il percorso verso la propria libertà.
Il marito fu processato, sebbene negasse tutte le accuse (il disconoscimento dei fatti è una difesa spesso utilizzata dai mariti violenti, forse un modo di alleggerire la propria colpa rimuovendo la consapevolezza del gesto; oppure, semplicemente una strategia pianificata da uomini amanti del controllo e incapaci di rimorsi), e gli fu sentenziato l’allontanamento da casa.

Mrs P. a quel punto si pentì: non si fece più rivedere dal suo avvocato, non rispondendo nemmeno alle sue lettere, e con ogni probabilità tornò insieme al marito. Agnello Hornby si dice sicura, benché non abbia potuto provarlo, del fatto che fosse lei la protagonista di un trafiletto di giornale, uscito l’anno successivo al processo, riguardante il suicidio della moglie di un giovane colombiano. Era anche convinta che fosse stato lui a ucciderla, forse un raptus di follia dovuto a una lite, forse un atto premeditato. La verità su quella particolare situazione rimarrà per sempre nascosta nell’ombra senza mai trovare una vera giustizia, come d’altronde una porzione non indifferente di simili casi.

Il leggere tale testimonianza mi ha riportato alla mente una cosa. Sono un fan del franchise americano di Law & Order, una serie televisiva incentrata su indagini e successiva proposizione dell’iter procedurale in tribunale legato al caso. Mentre nella “serie madre” il tema principale sono gli omicidi, con nel corso delle puntate la conseguente ricerca, cattura e spesso (anche se non sempre) condanna dell’assassino, uno spin-off – Unita Vittime Speciali – si concentra invece sui crimini di natura sessuale, che, come recita l’introduzione del narratore all’inizio di ogni episodio, “in America sono considerati particolarmente esecrabili”.

La serie è composta da numerose stagioni ed è tra l’altro ancora in corso, e in ogni episodio si parla di una violenza di qualche genere: maltrattamenti domestici, stupri, pedofilia. Il materiale da cui trarre un qualche esempio sull’argomento è veramente ampio. Ciò che però mi è ritornato alla mente in questa casistica particolare è una puntata della quattordicesima stagione, per la precisione la sedicesima, risalente al 2013 e intitolata “Funny Valentine” (in italiano reso con “Solo per amore”).

Vittima dell’episodio è Micha Green, una giovane e promettente cantante che insieme al suo fidanzato Caleb Bryant è impegnata nella registrazione di un disco; in un momento di pausa, lui flirta con un’altra donna, e quando lei lo riprende, dandogli scherzosamente del “porco”, lui inizia a malmenarla, addirittura di fronte agli amici. Nonostante quando, arrivata in ospedale per le ferite ricevute, Micha si apra in un primo momento ai detective, fin dall’inizio lo difende con affermazioni sul genere “lui di solito non è così”, giustificazione spesso utilizzata dai maltrattati, che cercano di vedere quanto più possibile il buono nell’aggressore.

Anche gli altri testimoni sono riluttanti, ma quantomeno si riesce a raggiungere un accordo su un periodo di lavori socialmente utili e un ordine di restrizione che vieta a Caleb di avvicinarsi a Micha. Ciò nonostante, Caleb si reca da lei in due occasioni: la prima volta la va a trovare nell’hotel in cui al momento la ragazza alloggia, e pare sia stata lei stessa a chiamarlo in quanto lo ama ancora; la seconda, partecipa a una festa cui stava presenziando Micha. In questa circostanza le cose peggiorano persino: Caleb apparentemente uccide il manager della ragazza, l’unico completamente dalla sua parte e che non aveva il timore di dire le cose come stavano, ma ciò nonostante Micha, dopo un primo momento in cui afferma che avrebbe testimoniato, ritira tutto; Caleb è riuscita a farle cambiare idea. Il ragazzo è di nuovo libero, e i detective, ormai rassegnati, si convincono che l’unica cosa che possono fare ora è “aspettare l’inevitabile”. Inevitabile che accade mentre i due sono su uno yacht alle Bermuda: basta un nonnulla (Caleb riceve un messaggio sul telefonino, e Micha si limita a chiedere chi sia) per un raptus del cantante, che questa volta va fino in fondo. L’episodio termina con una notizia al telegiornale, che visionano gli stessi detective dell’Unità Vittime Speciali, su come Micha sia morta e Caleb arrestato.

Nonostante il disclaimer presente all’inizio di ogni puntata che recita “La seguente storia è pura finzione e non fa riferimento a cose o persone realmente esistenti”, è invece chiaro a chi segua la cronaca l’ispirazione di tale sceneggiatura (e d’altronde, molti episodi di questa e altre serie poliziesche sono basati su eventi criminosi realmente accaduti, sebbene debbano probabilmente inserire comunque quella formula per motivi legali): la vicenda è infatti parzialmente basata sulla tormentata storia d’amore tra Rihanna e Chris Brown. Un rapporto burrascoso, fatto di discussioni continue, e anche di maltrattamenti fisici: “Mi ha picchiata, ma lo amo”, aveva riferito Rihanna in un’intervista. L’atto finale nel 2009, in cui, a seguito di un nuovo e più violento pestaggio, la cantante decise di tagliare i ponti. Non definitivamente, però, in quanto pare che i due abbiano avuto un breve riavvicinamento nel 2013, conclusosi dopo poco sembra, però, senza vicende estreme.

Un confronto tra Micha Green (sulla sinistra), interpretata dall’attrice Tiffany Robinson nell’episodio “Funny Valentine” di Law & Order: Unita Vittime Speciali, e una foto di Rihanna scattata dopo l’aggressione subìta da parte di Chris Brown nel 2009.

Un episodio fortunatamente più a “lieto fine” rispetto a quella della fiction, sebbene le ripercussioni di un rapporto così le si portino dietro per anni, se non per tutta la vita. È come se a livello psicologico si venisse “marchiati” da questa avventura negativa, la quale influenzerà senz’altro anche le future situazioni relazionali. Sempre secondo le testimonianze derivate dalle esperienze di Simonetta Agnello Hornby,

“Credevo che la donna, se aiutata, si riprendesse facilmente dalla violenza fisica e psicologica. [Invece] Il danno causato dalla violenza di qualsiasi genere è duraturo. Credevo che la donna che ha subìto violenza fisica e/o psicologica da un uomo sapesse tenersi alla larga dagli uomini violenti. Invece è proprio il contrario: la donna ha perduto l’autostima ed è condizionata dai comportamenti violenti. È attratta da uomini simili all’aggressore, che a loro volta sono attratti da lei. Credevo che la donna che ha subìto violenza fisica o psicologica e l’ha vista infliggere ai propri figli non avrebbe mai permesso all’aggressore di ritornare in famiglia o nelle situazioni in cui aveva precedentemente commesso violenza. Invece spesso la donna ritorna da chi ha aggredito lei e i suoi figli, o permette a lui di ritornare.”

Insomma, la sudditanza psicologica nei confronti dell’oppressore è un peso per la vittima difficile da ammettere, e di cui è ancora più difficile liberarsi.

 

Qui termina la prima parte di questo articolo, che vedrà il suo prosieguo (e il suo termine) quanto prima.

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Alla prossima!

 

[1] Lo sguardo della vittima. Nuove sfide alla civiltà delle relazioni. Scritti in onore di Carmine Ventimiglia, a cura di Alessandro Bosi e Sergio Manghi, casa editrice FrancoAngeli, 2009.

[2] Ibidem

[3] Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione, a cura di Marco Deriu, Marotta e Cafiero Editori, 2016.

[4] Is domestic violence a gender issue, or a woman issue?, da Journal of Human Behavior in the Social Ennvironment, a cura di R. L. Mc Neely, Jose B. Torres e Philip W. Cook, 2001.

[5] Il male che si deve raccontare. Per cancellare la violenza domestica, di Simonetta Agnello Hosnby con Marina Calloni, casa editrice Feltrinelli, 2013.

[6] Ibidem